Se devo per forza nominare SOLO un videogioco che ha rappresentato al meglio la mia esperienza nelle sale giochi sin da quando ero bambino, non posso non dire “The House of the Dead”. Non c’è picchiaduro che tenga, lo sparatutto zombie è quello che di certo ha segnato la mia vita videoludica, non solo a Roma, ma anche nel paesino abruzzese dove trascorro spesso weekend e vacanze: mia zia aveva una piccola sala giochi nel retro del suo bar/ristorante/pizzeria (a cui sarò per sempre legato) e tra i videogiochi, vi era il primo “The House of the Dead”, anche se in formato minore, rispetto ai maxi schermi presenti nelle grosse sale giochi. Nonostante la mia giovanissima età (penso di aver avuto anche meno di 10 anni), mi armai di pazienza, monete e coraggio e finii DA SOLO il gioco. Mi sono sentito davvero fiero di me. Le dita con cui impugnai la pistola (finta, ovviamente) erano meno felici, visto che per lo sforzo di tenere strettissima l’arma, mi sbucarono un paio di calli molto dolorosi. Ma ehi, finire un terrificante gioco zombie da solo è una grandissima soddisfazione. Anche i ragazzi del paese mostrarono ammirazione…e forse anche un po’ di paura nei miei confronti, visto che preferivo sparare ai non morti e non stringere amicizie.
E fu così che mi reputarono il più strano del paese. Non ne ho la certezza, ma il mio istinto, a distanza di un decennio e poco più, continua a pensarlo.
Ovviamente, non contento, finii pure il secondo gioco, sempre in una sala giochi, ma a Roma, dove c’era un edificio enorme, pieno di cabinati, come “Tekken 4” (che col tempo sto rivalutando) e “Tekken Tag Tournament”. Sempre da solo, ma assistito da mio padre, sconfissi il boss finale, sparando al maxi schermo.
Ad oggi, ancora non so quale definire, tra i due, il capitolo più angosciante. Erano davvero fatti bene.
Il terzo capitolo lo giocai e finii soltanto sul PC e sulla Wii (dove fu rilasciato insieme al secondo gioco), mentre il quarto gioco lo potei giocare, ancora una volta, nelle sale giochi, ma ormai in Italia stavano già cadendo nell’oblio definitivo. Per fortuna, potei finirlo sulla PS3, ma questi giochi non si possono apprezzare a pieno sulle console.
Passano più di 10 anni dall’ultimo capitolo e mi chiedo, completando una nuova partita di “The House of The Dead 4” su PS3, se riusciremmo mai a vedere una degna conclusione per questa grande saga, nonostante le sale giochi siano sparite in molti paesi.
All’improvviso, viene annunciato un nuovo capitolo per le sale giochi giapponesi.
Finalmente.
Sarebbe stato rilasciato per le sale giochi giapponesi verso fine settembre 2018.
Io tornai a Roma da Kyoto a metà settembre.
Ammetto che rosicai un pochino.
Nel gennaio del 2019, però, ho vinto la borsa di studio per un anno a Sendai.
La prima cosa che pensai non fu “Che bello, finalmente migliorerò nel giapponese”, ma “Che bello, finalmente torno nelle sale giochi e proverò di persona il nuovo “The House of the Dead”.
Scherzo, ma quando mi trovai, l’anno scorso, davanti al cabinato del gioco, in una sala giochi a Shinjuku, provai una forte adrenalina. Sembrava di essere tornati ai tempi delle elementari, sempre da solo e armato di coraggio e pazienza, ma in una terra a me quasi sconosciuta. Tra l’altro, ad Akihabara hanno ancora il secondo gioco su maxischermo e la gente ama ancora giocarci. Peccato che qui a Sendai non ci sta.
Sono riuscito a finire questo nuovo capitolo solo verso fine novembre, in una partita singola e con 4 crediti (grazie anche alle vite bonus acquistate usando la carta personalizzata, ma dettagli). Poi, però, sono riuscito a finirlo di nuovo, stavolta insieme a un mio amico e usando ciascuno soltanto due crediti.
Sono diventato un pro.
Questo quinto gioco è un piacevolissimo reboot del capostipite della saga, in quanto hanno molte cose in comune, ma al tempo stesso è un sequel (del quarto titolo) e prequel (del terzo titolo). Come i capitoli precedenti, ha tanti difetti, ma è molto, molto, molto divertente.
Trama: Siamo nel 2006, ovvero tre anni dopo gli eventi del quarto gioco. Kate Green e Ryan, il fratello minore di James (deceduto alla fine del quarto gioco), indagano sulla minaccia zombie durante una cena di beneficenza organizzata nella misteriosa Scarecrow Manor. All’improvviso, il proprietario della magione scatena un’orda di zombie contro i poveri ospiti…
Sviluppato da SEGA, “House of the Dead: Scarlet Dawn” è uno sparatutto horror su binari in prima persona, rilasciato nelle sale giochi giapponesi nel settembre 2019, mentre negli USA è arrivato nel mese successivo. Si tratta del quinto capitolo della saga principale di “The House of the Dead”. Al momento non sono previste versioni su console.
I protagonisti sono due: gli agenti Kate Green e Ryan Taylor. La prima è la biondona del capitolo precedente, mentre il secondo è una new entry ed è il fratello minore di James, eroe del secondo e del quarto gioco, sacrificatosi per salvare l’umanità davanti alla povera Kate. Altro personaggio importante è Thornheart, anziano proprietario di Scarecrow Manor e responsabile degli eventi di questa nuova storia.
Kate è la stessa ragazza di pochi anni fa, ironica e stilosa, anche se si nota la maggiore maturità, in questo capitolo. Non capita mica a tutti di sopravvivere a un’epidemia zombie e di vedere il proprio partner morire. Kate, quindi, è l’agente veterano, in questo gioco ed è colei che agisce in maniera più razionale, sfruttando la sua esperienza.
Ryan, d’altro canto, è molto impulsivo e della incazzatura facile, visto che vuole vendicare a tutti i costi il fratello. Insomma, tutto il contrario di James, che era calmo e saggio. Vabbè, i novellini alla fine sono sempre così, in questi giochi.
Thornheart svolge lo stesso ruolo di Curien (villain del primo gioco) e Goldman (cattivone del secondo gioco): misterioso filantropo che sembra agire per il bene del mondo, ma in realtà ha dei piani malati in mente e quindi tiè, beccatevi ste mandrie di zombie affamati, così crepate e io potrò conquistare il mondo. Un piano decisamente intelligente.
Come nei giochi precedenti, non c’è caratterizzazione psicologica a parte alcuni tratti rappresentati in maniera banale.
Ovviamente non posso non parlare dei veri protagonisti di questo gioco: gli zombie.
I cari, bellissimi e affettuosissimi non morti sono presenti in tutte le salse: vi sono creature maschili, femminili, secche, in forma, grasse, muscolose, gnappe, alte, di altezza media, armate di barili, motosega, spiedi giganti, accette (case, libri, auto, viaggi, fogli di giornali), ma anche civili, samurai, eleganti e rockettari. Per non farci mancare proprio nulla, abbiamo a che fare anche con zombie delle fogne, sanguisughe e topi infetti. Complimenti agli sviluppatori del gioco per la creatività trash.
Non c’è “The House of the Dead”, però, senza i boss. In questo gioco ce ne sono 4, due nuovi e due graditi ritorni dal primissimo gioco: Hangedman (Il pipistrellone) e Chariot (L’omone corazzato). Il nuovo boss standard è Priestess (la Papessa), una creatura marina orripilante e provvista di tentacoli killer. Stranamente, i creatori non hanno voluto puntare sull’ovvio (il sempreverde Magician), ma hanno introdotto un nuovissimo boss finale: Moon (La Luna). Quest’ultimo è proprio un boss degno di essere chiamato tale: potentissimo e carismatico.
La storia è ambientata 3 anni dopo il quarto gioco: Kate continua imperterrita a indagare sulla minaccia zombie, anche senza l’aiuto del suo caro collega James. Per fortuna può contare sul fratellino di quest’ultimo, Ryan (di cui non avevamo MAI sentito parlare, nei giochi in cui era apparso James). Le indagini portano il duo a una cena di beneficenza con sorpresa: l’organizzatore (infatti) fa lo Smithers della situazione e libera i cani, ovvero gli zombie. Ovviamente, sta a Kate e Ryan risolvere la situazione, debellare ancora una volta la minaccia zombie e salvare i poveri ospiti ancora vivi.
I giocatori si faranno molte domande: Perché Blackthorn ci tiene così tanto a conquistare il mondo? Qual è lo scopo principale dell’organizzazione di cui fanno parte il vecchio e gli altri due (ormai defunti) cattivoni? Ci sarà mai una fine alla minaccia zombie? Che altro succederà prima del 2019, anno in cui è ambientato il terzo gioco? Perché dopo esso, hanno messo in scena solo prequel?
Ovviamente, molti di questi quesiti resteranno senza risposta. Per quanto divertente, questa saga non ha mai brillato nel fattore “trama”. Ok, gli zombie hanno invaso il mondo. Perché non approfondire il motivo che ha spinto i cattivi a rilasciare l’epidemia, andando oltre il banalissimo “Vogliamo liberare il mondo da ogni male e riplasmarlo a nostro piacimento”? Perché non soffermarsi anche su una possibilità di creare un antidoto o qualunque altro rimedio per liberare il mondo dai non morti che non comporti per forza la distruzione dell’orda e del boss finale? Il male si estirpa partendo dalla radice, no?
Apprezzerei davvero tanto qualcosa di nuovo, in questo campo, sennò è sempre la stessa solfa, divertente ma noiosa. Come giustamente ha detto il mio amico con cui ho finito il gioco, “Che trama profonda”.
Mi sembra sia arrivato il momento di liberarci dallo stereotipo del gioco sparatutto che punta solo sul gameplay e ignora la trama, che dite?
Lo scontro finale, però, è epico, persino quando arriva la svolta trash e surreale.
La sceneggiatura è scarna e banale, ma contiene molti piacevoli rimandi ai giochi precedenti, soprattutto il primo, con cui ha molti elementi in comune (una villa enorme, piena di stanze segrete e laboratori, i primi due boss, i civili da salvare, lo zombie con le due accette e il villain che cammina con un bastone). Anche alcune battute sono un omaggio a James e al quarto gioco.
Il gameplay compensa per tutti i difetti negli altri campi.
Il gioco è diviso in cinque livelli, prologo compreso. Ogni stage ha uno schema abbastanza prestabiliti: salvare civili e il partner, scegliere da che parte andare, alcuni eventi utili per guadagnare punti, orde di zombie e il boss di fine livello.
Alla fine di ogni livello, ci viene dato un punteggio: più alte sono le statistiche, più alto è il voto (il più alto è S) e le ricompense, come vite bonus.
Dopo due giochi di assenza, finalmente è di nuovo presente l’evento di salvataggio dei civili, anche se avviene in maniera più sporadica, rispetto al passato. Di ritorno dal terzo capitolo, invece, è il salvataggio del partner, sia da agguati zombie che da attacchi da parte dei boss. Entrambi gli eventi, se risolti in termini positivi, influiscono molto sul punteggio finale.
L’ordine di successione dei livelli non è fisso, eccezion fatta per il prologo e il livello finale. Il primo, il secondo e il terzo livello si possono affrontare nell’ordine che preferite. Da quanto ho capito, l’ordine influisce sul finale. Come nei giochi precedenti, è possibile sbloccare vari finali. Per ora, sono riuscito a vedere solo quello standard.
Ovviamente, nemmeno il percorso all’interno del livello singolo è lineare: in alcuni punti bisogna scegliere, attraverso dei quick time event, da che parte andare.
L’arma da utilizzare è la stessa del quarto capitolo: il mitra. I tempi della pistola classica sono belli che andati, non ci possiamo fare niente. In alcuni punti, però, siamo costretti a usare armi diverse. Questo elemento di varietà rende il gioco ancora più godibile.
Il giocatore inizia il gioco con tre vite. Ogni volta che subisce un attacco, perde una vita. Quando il conteggio vite arriva a 0, bisogna inserire un altro gettone per giocare entro lo scadere dei 10 secondi, altrimenti è game over. In alcune casse è possibile trovare vite extra, in altre invece oggetti in grado di regalare più monete e punti.
Ovviamente, il punto debole degli zombie è la testa: meglio non sparare a casaccio in qualunque parte del corpo, concentratevi sulla testa. Alcuni zombie sono più resistenti e hanno bisogno di più colpi ben mirati per crepare definitivamente.
Le battaglie contro i boss sono il punto più adrenalinico del gioco: ogni scontro è diviso in varie fasi, ognuna di esse superabile solo se si riesce a togliere una parte di salute del nemico. Gli imprevisti rendono il tutto ancora più divertente.
Chi vuole affrontare un’esperienza di gioco ancora più variegata può giocare usando la carta Aime (acquistabile a soli 300 yen): usandola, è possibile utilizzare le monete raccolte durante le partite per acquistare dei potenziamenti. Io scelgo sempre le vite bonus. Inoltre è possibile sbloccare trofei soddisfacendo determinati requisiti.
La difficoltà onesta permette a questo titolo di essere godibile a pieno, visto che gli zombie sono moltissimi e resistenti e i boss molto infami. Chi vuole mettersi ancora di più alla prova, può giocare alla modalità Master. Io ancora non so di che si tratti, ma avendo finito il gioco in modalità Normale, penso sia da bravo giocatore provarci.
Menzione a parte per il cabinato, estremamente immersivo. Innanzitutto, bisogna entrare entro e sedersi (c’è spazio per entrambi i giocatori). Durante il gioco, poi, l’ambiente in cui ci si trova al momento viene riflettuto all’interno della cabina attraverso rumori, colpi di aria e cambi di luminosità (in luoghi più illuminati si accende la luce, mentre in altri più bui si sta leggermente più nell’oscurità. Ottimo. Fa venire molta più angoscia.
Il fattore horror è gestito molto bene. In realtà non ci sta molto sangue, rispetto ai giochi precedenti, ma la violenza è alta. Alcuni jump scares sono fatti molto bene.
Il comparto grafico del gioco è un argomento un filo delicato.
I personaggi umani sono bruttissimi. Per essere stato fatto un anno fa, il gioco non è proprio un gran bel vedere, in questo contesto. Kate alla fine si salva, ma Ryan e il vecchio sono bruttissimi. Il viso di Ryan pare quello di un pesce palla, visto che ha gli occhi a palla e prorompenti.
Gli zombie, invece, sono stati realizzati in maniera più decenti, ma sono i boss a essere i fighi di turno. Sono davvero belli nella loro bruttezza.
Hangedman e Chariot sono stati rifatti in grande stile, mi sono piaciuti moltissimo in alta definizione. Anche Priestess è interessante, ma Moon è qualcosa di straordinario. Era dai tempi di Magician e Emperor che questa saga non ci regalava un boss finale fighissimo.
Anche le ambientazioni mi sono piaciute. La villa è enorme e piena di segreti, in più si può esplorare il cortile esterno, gli edifici adiacenti e persino i sempre presenti laboratori sotterranei.
La presentazione dei boss con i loro punti deboli ha sempre il suo perché. La scena con Hangedman, per esempio, è girata in maniera molto interessante e ricorda molta il primo gioco.
Anche il fattore sonoro divide. Il doppiaggio è terribile, almeno nel caso del vecchio (perché i cattivi sono sempre doppiati da schifo, in questa saga?), anche se niente batterà mai il trash del secondo gioco.
Le musiche, invece, sono molto coinvolgenti. Alcune sono belle adrenaliniche, altre più angoscianti. Mi sarebbe piaciuto sentire, però, qualche remix della colonna sonora del primo capitolo, magari il primo livello o il combattimento contro i boss.
“The House of the Dead: Scarlet Dawn” è un ottimo guilty pleasure, per chi vive in Giappone e ama andare frequentemente alle sale giochi. Si gioca che è una meraviglia, anche se lo si ha già completato. Il fattore intrattenimento è così alto che si riesce a sorvolare su ogni suo difetto.
Chissà se mai uscirà per le console estere.
Chissà cosa altro ci aspetta, riguardo il futuro della saga. Ho letto che sono al lavoro su dei veri e propri remake dei primi due giochi. Sarei felicissimo di giocarli…soprattutto se non cambiassero nulla del gameplay e mettessero, una volta per tutte, un doppiaggio decente. Sennò vado io a offrirmi volontario o cerco di convincere gente come Troy Baker o Nolan North a lavorarci perché una saga così mitica merita delle signore voci.